sabato 10 novembre 2007

Il Matrimonio (U matremmuonu)

In tempi antichi a Migliuso non ci si sposava mai nella settimana precedente la Pasqua perchè era la settimana di passione di nostro Signore Gesù Cristo e non ci si sposava neanche nel mese di maggio perchè era considerato il mese degli asini. Infatti in questo periodo anche gli asini vanno in amore. Non era raro che le nostre donne dovessero arrossire dalla vergogna quanto gli asini maschi sentivano l’odore di una femmina e incominciavano ad essere irrequieti. Pertanto il mese di maggio era quello in cui assolutamente non ci si doveva sposare. In realtà gli asini non avevano niente a che vedere con questa credenza che è di origine romana in quanto maggio era il mese dei Lemuri ossia della commemorazione delle anime dei defunti pertanto considerato infausto per i matrimoni. Il matrimonio generalmente era possibile solo tra appartenenti allo stesso ceto sociale e le forme erano piu’ o meno solenni a seconda dell’appartenenza dello stesso. La cerimonia nuziale generalmente era preceduta dalla promessa (U purmintere) e spesso tra l’una e l’altra intercorreva una distanza di mesi a volte di anni determinate quasi sempre dall’età degli sposi e dalle disponibilità finanziarie delle famiglie. La promessa di matrimonio stretta insieme alle famiglie dei giovani non comportava oblighi particolari, era solo un’impegno assunto dalla coppia di fronte ai genitori e gli amici, festeggiato con un banchetto (Tavulata) e sancito con lo scambio degli anelli e dei regali e dalle parole d’impegno e di accettazione dei corrispettivi familiari, sin da quel momento i giovani promessi dovevano chiamare i genitori dell’altro mamma e papà e i parenti zio o zia etc. L’anello d’oro veniva portato rigorosamente al dito anulare in quanto stabiliva un legame immaginario tra il cuore la ragione e la fede. Da credenze grecaniche dall’anulare parte un nervo sottile che arriva al cuore (dunque unione tra la fede e il cuore). Il matrimonio generalmente era combinato dai genitori (padri in particolare) i quali stabilivano anche la dote per entrambi. Nella settimana antecedente la celebrazione del matrimonio veniva trasferita nella dimora degli sposi la biancheria (u Janchiju) data in dote alla sposa dai propri genitori. Generalmente veniva trasferita con grandi canestri lasciati volutamente scoperti per far vedere a tutti la quantità e la qualità della dote. Il giorno del matrimonio lo sposo poteva vedere la sposa in abito bianco solo quando lei si presentava davanti alla chiesa (vederla prima portava male). Lo stesso giorno di mattina i rispettivi invitati raggiungevano le famiglie dello sposo e della sposa dove veniva effettuato un rinfresco che consisteva in caffè, liquori fatti in casa con gli estratti, pan di spagna, mostacciuoli, tarallucci dolci, confetti e più recentemente cioccolatini e paste di mandorla. La cerimonia in chiesa avveniva più o meno come oggi ma senza fotografo e videocamere. Tra la fine dello ottocento e la seconda metà del novecento i più fortunati la settimana dopo si recavano a Nicastro per le foto di rito generalmente da Le pera o il 900. Terminata la celebrazione in chiesa si consumava a casa propria (se lo spazio era sufficiente) o a casa di amici il pranzo nuziale. Il pranzo nuziale che era il più ricco possible tanto che spesso per questo ci s’indebitava e la gente mangiava a crepapelle anche quello che magari non riusciva più ad entrare nel loro stomaco. Non era raro che il giorno dopo ci fosse un’epidemia di diarrea. La base del pranzo era costituita dall’antipasto di salumi e sottaceti, la minestrina di pollo con polpettine di carne, il timballo, la carne di agnello al forno con contorni vari (raramente vitello) qualche volta u vrasciolune una specie di polpettone di carne tritata con verdure ed uova sode il tutto insaccato dentro la parte molle della pancia dell’agnello e poi nacatule, vrashole, frutta di stagione caffe e dolci, il tutto innaffiato in abbondante vino. La torta nuziale era ancora poco conosciuta, ed i regali ricevuti sotto forma di denaro venivano ritirati dai rispettivi genitori per far fronte al pagamento delle spese sostenute. I poveri sposi come si soleva dire il giorno dopo restavano spasulati o meglio ccu lli spalli mundati, cioè nudi e senza una lira e con una miriade di piccoli problemi da affrontare. Terminato il pranzo le amiche che generalmente erano le cugine o le comari regalavano alla sposa un fuso ed una conocchia, simboli della virtù domestica femminile. Nel letto quasi sempre c’era un qualcosa che non permetteva agli sposi l’immediato rifugio nel loro nido dell’amore, generalmente era dello zucchero tra le lenzuola o il classico sacco. Il viaggio di nozze era un’illustre sconosciuto, in compenso però la prima notte di nozze veniva disturbata o allietata (dipende dai punti di vista) dalla serenata condotta ed organizzata da una torma di parenti e amici i quali con questa scusa non permettevano la consumazione del matrimonio e continuavano l’abbuffata iniziata il giorno prima.

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