mercoledì 8 aprile 2009

Terremoto in Abruzzo

Eroi e vecchi camion, le due Italie

Fantastica dedizione e piccoli egoismi, i contrasti (storici) di un Paese in emergenza

Il caposquadra dei pompieri Marco Cavagna ci ha lasciato la pelle, nel tentativo di salvare quella degli altri. Era partito coi colleghi da Bergamo per L'Aquila all'alba. La sera era già al lavoro tra le rovine della città fantasma. Una fitta e si è acca­sciato. C’è da sperare che almeno l’ambu­lanza fosse in ordine. Perché, insieme con tanti eroi ricchi di coraggio e generosità come lui, i vigili del fuoco arrivati da tutto il Paese sono stati costretti a portare in Abruzzo anche vecchi camion scassati.

Bestioni appesan­titi da venti anni di servizio o ancora di più. Che a volte, dopo un rantolo del mo­tore, si sono fermati in autostrada e, co­me certi muli di una volta, non han volu­to saperne di ripartire. Eccole qui, le due facce dello Stato sul fronte di quella che Guido Bertolaso ha chiamato «la tragedia del millennio». Due facce complementari, come tante volte accade. Da una parte l’Italia dei ve­tusti «Fiat Om 90», «AF Combi» o «APS Eurofire» in servizio dai tempi lontani in cui il centravanti della nazionale era Paolino Rossi, carrette di lamiera che do­po essere state lasciate «dieci anni nei ca­pannoni » (parole di un comunicato uffi­ciale del sindacato di base Rdb-Cub) so­no finite «fuori uso per problemi di ribal­tamento e rotture ai supporti del serbato­io dell’acqua» e abbandonate lungo il percorso.

Dall’altra l’Italia che nel giro di poche ore, in condizioni di assoluta emergenza, riesce a portare a L’Aquila un camion di computer nuovi di zecca, subito allacciati da una squadretta di si­stemisti per allestire una centrale operati­va d’avanguardia. E non puoi arrabbiarti con la prima Ita­lia senza guardare con ammirazione quel­­l’altra. Non puoi sentirti orgoglioso di co­me sgobbano i carabinieri e i poliziotti, le guardie di finanza e i forestali e tutti gli altri senza ribollire d’insofferenza a guardare la mattina, tra le macerie di On­na, la delusione dei volontari della Prote­zione civile del Friuli, che sono venuti giù coi loro cani e le loro tende e le loro attrezzature e stanno lì impotenti nelle loro divise nuove di zecca che non riesco­no a sporcare: «Sono già le dieci, siamo qua da ieri sera e nessuno ci ha ancora detto come possiamo renderci utili. Che modo è?».

È l’Italia. La «nostra» Italia. Piccoli ego­ismi e fantastica dedizione, efficienza e sciatteria, ripiegamenti individualisti e straordinario altruismo di uomini e don­ne accorsi da tutte le contrade a dare una mano. Nonostante le paure per uno scia­me sismico che pare non finire mai. I ca­ni, nel centro del capoluogo, sono nervo­si. Sembrano sentirli prima, loro, gli scrolloni della terra. Gli esperti dicono che è così da sem­pre. Che secondo Diodoro Siculo, pochi giorni prima che un sisma annientasse la città greca di Elice, nel Peloponneso, nel 373 a.C., i ratti e le donnole e i serpenti avevano abbandonato la città. E che tre giorni prima della spaventosa scudiscia­ta che qualche tempo fa sconquassò la ci­nese Mianzhu uccidendo duemila perso­ne, migliaia di rospi in fuga si erano ri­versati per le strade. E che gli etruschi, per capire, guardavano le vipere. Come noi oggi, mentre i sismologi si avventura­no tra i diagrammi, ci accorgiamo di but­tare un occhio, inquieti, su ogni bastardi­no che scodinzola tra i cornicioni sbricio­lati. Mentre una Volante passa per il cor­so principale con l’altoparlante a tutto volume per cacciare i rarissimi passanti che affrettano il passo: «Via da queste strade! Via da queste strade!».

Il gran Sas­so, lassù in alto, domina severo. L’impre­sario edile Bruno Canali, ai margini di quella Onna in cui le ruspe scavano sol­chi tra le montagne di macerie per rico­struire il tracciato delle vecchie strade, mostra il suo villino: «Non c’è una cre­pa». Spiega che l’ha costruita seguendo «tutti i criteri antisismici». A pochi me­tri, le altre case si sono sgretolate. Da lui non è caduto un soprammobile. Come fai a non arrabbiarti, a guardare le foto­grafie della biblioteca della scuola ele­mentare crollata a Goriano Sicoli o, peg­gio ancora, dell’ospedale (l’ospedale!) dell’Aquila? Sono anni che si sa come si dovrebbe costruire, nelle aree a rischio. Non sono serviti a niente la durissima lezione del terremoto ad Avezzano né gli avvertimenti degli esperti che da decen­ni ricordano come le zone più esposte si­ano quella a cavallo dello Stretto di Mes­sina, la Sila in Calabria, il Forlivese, la Garfagnana e la Marsica né il disastro di qualche anno fa in cui morirono i piccoli di san Giuliano. A niente. «Dopotutto non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani», disse furente Jean-Jacques Rousseau a proposi­to del catastrofico terremoto di Lisbona del 1755. L’uomo non può sfidare impu­nemente la natura: questo voleva dire. Non può contare, spensieratamente, so­lo sulla buona sorte. Eppure così è sempre stato, da noi. E decine di migliaia di persone hanno con­tinuato ad ammucchiarsi disordinata­mente intorno al Vesuvio nonostante sia­no passati solo pochi decenni dall’ultima eruzione del 1944 quando la gente pazza di paura prese a girare con la statua di San Gennaro perché fermasse la lava già bloccata quarant’anni prima dal santo a un passo da Trecase. E migliaia di sinda­ci e assessori e vigili urbani hanno chiu­so gli occhi per anni sul modo in cui, an­che nelle zone più pericolose, venivano tirati su spesso con cemento scadente e piloni gracili i condomini e le scuole e gli edifici pubblici. Per non dire di chi aveva le responsabi­lità più gravi. «Mai più», aveva giurato Silvio Berlusconi nel novembre del 2002, dopo la tragedia di san Giuliano di Pu­glia. Sono passati più di sei anni, da allo­ra. Ma, come accusava ieri mattina Il Sole 24 ore, il varo delle nuove regole si è via via impantanato di ritocco in ritocco, di rinvio in rinvio, di proroga in proroga. Colpa della destra, colpa della sinistra. Ba­sti ricordare che fu solo la Corte Costitu­zionale, tre anni fa, tra i lamenti e gli stril­li dei costruttori («Siamo molto preoccu­pati per il rischio di paralisi nei cantieri, si potrebbe bloccare l’edilizia!») a blocca­re una legge troppo permissiva della Re­gione Toscana spiegando che no, «in zo­na sismica, non si possono iniziare i lavo­ri senza la preventiva autorizzazione scrit­ta del competente ufficio tecnico».

Ed è sbalorditivo, oggi, tornare indie­tro soltanto di qualche giorno. E trovare la conferma che mai, prima dell’apocalis­se di lunedì notte, erano state nominate parole come sisma o terremoti nella pro­posta edilizia del governo alle Regioni del giugno scorso, mai nella prima bozza di un mese del «piano casa», mai nell’in­tesa del 31 marzo. Mai. Oggi Claudio Scajola detta alle agenzie che il piano ca­sa «dovrà essere utile anche per le prote­zioni antisismiche» e il nuovo documen­to dato alle Regioni, ritoccato l’altro ieri in tutta fretta, ha un «articolo 2» nuovo nuovo. Dove si spiega, sotto il titolo «misure urgenti in materia antisismica» che «gli interventi di ampliamento nonché di de­molizione e ricostruzione di immobili e gli interventi che comunque riguardino parti strutturali di edifici, non possono essere assentiti né realizzati e per i mede­simi non può essere previsto né conces­so alcun premio urbanistico sotto alcuna forma ed in particolare come aumento di cubatura, ove non sia documentalmente provato il rispetto della vigente normati­va antisismica».

Evviva. Ci sono voluti i lutti di Onna e la distruzione dell’Aquila e quelle file di bare allineate, però, per cambiare il testo originale dato alle Regioni solo una setti­mana fa. Dove l’articolo 6, precipitosa­mente soppresso dopo il cataclisma abruzzese, era intitolato «Semplificazioni in materia antisismica». Meglio tardi che mai. Purché fra una settimana, un mese, un anno, non torni tutto come prima. C’è un Galiani che for­se Berlusconi non conosce. Si chiamava Ferdinando e non Adria­no, aveva una «elle» sola, vestiva l’abito da abate ed era un dotto economista. Dis­se: «Molte volte le calamità distruggono le nazioni senza risorgimento, ma talvol­ta sono principio di risorgimento e di riordinamento di esse. Tutto dipende da come si ristorano». Sarà il caso di ricor­darlo.

Gian Antonio Stella
08 aprile 2009

Fonte: Corriere della Sera

Nessun commento: